Il counseling è un tipo di intervento che abbandona del tutto qualsiasi pretesa di problem solving. Lo scopo principale del counselor sociale, infatti, non è trovare risposte ai problemi del cliente o consigliare, come potrebbe erroneamente far pensare la traduzione letteraria del termine, bensì è quello di aiutare la persona a prendere consapevolezza delle proprie potenzialità, affinché possa intervenire, in prima persona, sulle problematiche che l’attanagliano e su quelle che in futuro potranno presentarsi.
Può sembrare un compito arduo per chi è abituato ad operare con estrema razionalità e pragmatismo ed è per questo che il lavoro di un buon counselor non può prescindere dalle caratteristiche e qualità personali del counselor stesso.
Le capacità del counselor
Autenticità, empatia, assertività, flessibilità cognitiva, capacità di mettere a proprio agio l’interlocutore, apertura mentale e atteggiamento non giudicante: sono queste alcune delle attitudini fondamentali per una efficace relazione di auto. Da non tralasciare, poi, una delle caratteristiche essenziali di un buon counselor, ovvero la conoscenza di sé. Occorre, infatti, comprendere se stessi prima di comprendere gli altri.
Prima di condurre e accompagnare l’altro nel proprio viaggio interiore, alla scoperta della self-knowledge, è necessario che il professionista abbia sperimentato personalmente l’esplorazione del mondo interiore e che abbia acquisito la piena consapevolezza del proprio io. Solo così il counselor è in grado di affrontare – e aiutare ad affrontare – le difficoltà e gli ostacoli che possono occorrere durante il percorso di crescita.
L’approccio maieutico
Il counseling sociale utilizza un approccio maieutico, ovvero cerca, attraverso il dialogo, di stimolare ciascuno ad esprimere le proprie potenzialità. La maieutica, infatti, era lo strumento dialogico utilizzato da Socrate per spingere il proprio interlocutore a giungere, in piena autonomia, alla verità.
Così, anche il counselor, attraverso il dialogo, cerca di sollecitare la persona a riconoscere ed impiegare quelle potenzialità che possiede e la denotano, liberandosi di ciò che ne ostacoli il manifestarsi.
Va da sé che lo strumento principale della relazione di counseling è la parola, perché è attraverso di essa che il counselor può conoscere il cliente e, soprattutto, il cliente può conoscere se stesso.
Parlare di sé è un ottimo primo passo per comprendersi, per capire a pieno i propri bisogni e per riflettere con maggiore intensità sulle possibili strategie per soddisfare quei bisogni; esternare ciò che si ha dentro, dirlo a voce alta, molto spesso è il metodo migliore per mettere a fuoco qualcosa che fino ad allora era stato un pensiero sfocato nella testa.
Quando si dice che la “parola cura” è a questo meccanismo che si fa riferimento; non devono, quindi, esserci malintesi: la parola che cura non è quella del counselor ma quella del cliente. Il counselor crea lo spazio nel quale la persona potrà ascoltarsi proprio perché sa di essere ascoltata, allo stesso tempo, da qualcun altro. La capacità e la disponibilità a verbalizzare del cliente diventano un fattore importante nella riuscita dell’interazione[1].
Il colloquio
È evidente come lo strumento cardine del counseling – che come detto fa grande uso della parola – e quello della relazione di aiuto del servizio sociale collimino; sto parlando del colloquio. Questo è uno strumento fondamentale, necessario e indispensabile, mediante il quale il professionista imbastisce la relazione con la persona ed esprime l’essenza stessa della professione.
L’ascolto attivo
Il colloquio è sì improntato sulla parola e sul dialogo, ma l’altra componente imprescindibile è l’ascolto; nella nostra professione si è soliti parlare di «ascolto attivo», ovvero quel tipo di ascolto ricettivo e attento a tutto ciò che l’interlocutore dice, attraverso la comunicazione verbale, e anche a ciò che non dice, prestando attenzione alla comunicazione non verbale (cinesica, paralinguaggio e prossemica).
L’ascolto attivo è caratterizzato dall’assenza di direttività. In questo tipo di approccio, il counselor più che condurre il colloquio in senso stretto, nel senso di dirigerlo verso l’approfondimento degli argomenti scelti dall’operatore, facilita l’esposizione del cliente. Cerca, così, di aiutare il cliente a sviluppare liberamente il suo punto di vista, il suo discorso, senza interferenze o ingerenze nella scelta degli argomenti da trattare o da approfondire[2].
La tecnica maggiormente utilizzata per facilitare l’ascolto attivo e per dimostrare interesse nel racconto del cliente è quella della riformulazione che consiste nel rielaborare a parole proprie i concetti espressi dall’interlocutore.
Secondo Carl Rogers, sono tre le principali forme di riformulazione:
- Riformulazione-riflesso: consiste nel parafrasare la comunicazione appena ricevuta dal soggetto. In questo caso è possibile utilizzare la cosiddetta risposta-eco con la quale il counselor, grazie alla ripetizione delle ultime parole pronunciate dal cliente, può sollecitare la prosecuzione del discorso e il suo approfondimento.
- Riformulazione-riassunto: che consiste nel sintetizzare ciò che viene detto dal cliente, riproponendo i temi essenziali del discorso in maniera chiara.
- Riformulazione-chiarificazione: consiste nel chiarire, appunto, cioè che l’interlocutore esprime in maniera confusa o disordinata, cercando, così, di restituire il senso globale del discorso.
Altra tecnica, altrettanto valida, di ascolto attivo, riguarda la formulazione di domande di approfondimento. Seppur si presenta come strumento direttivo e quindi apparentemente in contraddizione con la natura non-direttiva dell’ascolto attivo, risulta quanto mai utile per conoscere più in profondità determinati argomenti di conversazione e per comunicare interesse al racconto della persona. L’atteggiamento del counselor, ad ogni modo, deve mantenersi orientato alla facilitazione dell’esposizione del cliente.
Ricapitolando, colloquio e ascolto attivo sono due componenti essenziali per la relazione di counseling.
L’empowerment
Vi è una terza componente, parimenti fondamentale, che è l’empowerment. Questo è un termine relativamente nuovo che viene utilizzato per la prima volta alla fine degli anni Sessanta nell’ambito dei movimenti femministi e per i diritti civili, ma è negli anni 2000 che l’utilizzo di questo termine anglosassone inizia a prendere piede nel linguaggio delle scienze sociali e psicologiche. Secondo la definizione dello psicologo americano, Julian Rappaport,
il termine empowerment indica come esso sia un processo di “acquisizione del potere”, inteso come crescita delle possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita […] e indica come l’empowerment sia un processo di abilità che tutti possiedono, ma che deve essere liberato. Sottolinea quindi come le abilità necessarie siano già presenti negli individui ma non siano utilizzate appieno[3].
L’empowerment, quindi, è un processo di crescita basato sull’incremento della stima di sé, dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione per far emergere risorse latenti e portare l’individuo ad appropriarsi consapevolmente del suo potenziale. È un percorso intenzionale e critico che, attraverso la motivazione al cambiamento e la partecipazione attiva al processo, giunge all’acquisizione di un maggior controllo sulla propria vita e a un più elevato benessere. Secondo la teoria di self-empowerment di Marc Zimmerman, sono tre le componenti fondamentali del processo di empowerment:
- Componente intrapersonale: si riferisce a ciò che le persone pensano di sé, al giudizio che ognuno dà alle proprie capacità.
- Componente interpersonale: si riferisce alla capacità di capire e gestire la propria realtà sociale, individuandone le rispettive problematiche, nonché risorse.
- Componente comportamentale: riguarda le azioni svolte per esercitare il controllo attraverso la partecipazione attiva
Conclusioni
Infine, per concludere il discorso sugli strumenti e sulle tecniche del counseling sociale, è bene tenere sempre a mente due dei principi fondamentali del servizio sociale: il rispetto dell’autodeterminazione della persona e la riservatezza.
Rispettare l’autodeterminazione vuol dire mostrare fiducia nelle capacità della persona e avere riguardo della sua autonomia e unicità.
La riservatezza, invece, è un requisito importante per facilitare un buon rapporto che necessita di essere costruito sulle solide basi della fiducia.
[1] Danon M., Counseling. La relazione che promuove la crescita personale, Red Edizioni, Cornaredo (Mi), 2016, pp. 44-45.
[2] Calvo V., Il colloquio di counseling. Tecniche di intervento nella relazione di aiuto, il Mulino, Bologna, 2015, p. 92.
[3] Dallago L., Che cos’è l’empowerment, Carocci editore, Roma, 2012, pp. 36-37.
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