L’anomia e l’autonomia nella società eterodiretta

Never forget that only dead fish swim with the stream.
                                                       – Malcolm Muggeridge –

L’individuo eterodiretto anela, seppur inconsciamente, l’adattamento alla società, cioè tenta di uniformarsi ai suoi pari, cercando spasmodicamente l’approvazione altrui.

Gli adattati […] sono le persone […] eterodirette tipiche, cioè coloro che hanno una struttura caratteriale che risponde alle richieste della loro società o della classe sociale […] Persone simili si adattano alla cultura come se fossero state fatte su misura per essa, e di fatto lo sono proprio. Da un punto di vista caratteriale, esse hanno una sorta di disposizione naturale all’adattamento, sebbene, come si è visto, l’adattamento possa imporre pesanti oneri alla gente cosiddetta normale. In questo senso, gli adattati sono gli individui che riflettono, con una distorsione minima, la società o la classe cui appartengono[1].

Ma questa non è l’unica via. Come sostiene Jürgen Habermas, c’è comunque un margine di irriducibilità per l’individuo. A tal proposito, Riesman individua altre due strade percorribili: quella dell’anomia e quella dell’autonomia.

L’anomia

L’anomia, è un concetto tanto caro alla sociologia novecentesca, diversi, infatti, sono gli autori che vi si sono approcciati.

Émile Durkheim, ad esempio, individua l’anomia in un contesto sociale debole, incapace di proporre norme e valori sociali condivisi e riconosciuti. Intuisce, quindi, l’incapacità della società moderna a produrre nuovi modelli culturali in concomitanza dei repentini e bruschi mutamenti sociali. Senza la guida della società, l’individuo non è in grado di porre un freno alle sue aspettative e ai suoi desideri e, di fronte all’impossibilità di realizzarli, cade in uno stato di frustrazione.

Nella società moderna, l’insoddisfazione è sempre prodotta da una mobilità ascendente che genera speranze destinate a essere deluse: l’illimitatezza delle aspirazioni apre la via a frustrazione e disperazione.

Robert K. Merton, invece, spiega l’anomia come una discrepanza tra gli scopi esistenziali formalmente promossi dalla società e i mezzi legittimi messi a disposizione per raggiungerli: la limitatezza dei mezzi, fonte di frustrazione, e l’impossibilità a raggiungere gli obiettivi imposti dalla società, creano disparità tra gli individui e stratificazione sociale.

Diversamente, David Riesman, utilizza il concetto di anomia come sinonimo di “disadattamento sociale”.

I disadattati sono membri della società eterodiretta incapaci di omologarsi appieno nel gruppo dei pari. Sin dalla prima infanzia essi sperimentano sentimenti di inadeguatezza e frustrazione nel vano tentativo di conseguire i medesimi traguardi dei coetanei, complice uno sviluppo fisico più lento e/o una differente propensione allo studio e alle attività fisiche o ricreative. Da tale senso di inadeguatezza, essi ne saranno accompagnati per il corso dell’intera esistenza, divenendo adulti altrettanto incapaci di ottenere i risultati socialmente convenzionali che ci si attenderebbe da loro, tanto sul piano professionale, quanto su quello personale e sentimentale. Da qui un prevedibile senso di frustrazione, suscettibile di sfociare in un comportamento autodistruttivo o, più comunemente, lesivo nei confronti della società, che si esterna in atteggiamenti devianti e antisociali.

L’autonomia

La deviazione dai modelli dell’adattamento, però, non necessariamente finisce per generare frustrazione e sentimenti negativi contro la società costituita. L’autonomia, infatti, è l’altra faccia della medaglia, caratterizzata non da un sentimento di inadeguatezza, bensì dalla volontà di non conformarsi a costrutti sociali non riconosciuti come propri ed in cui non ci si identifica.

Anche l’autonomia, come l’anomia, è una deviazione dai modelli dell’adattamento[2].

Gli autonomi sono quegli individui che, nel complesso, seppur perfettamente in grado di conformarsi alle norme comportamentali che la società imporrebbe – differendo, in questo, dagli anomici – scelgono liberamente di aderire, o meno, a tali modelli.

La persona che definiamo autonoma può conformarsi esteriormente o meno ma, qualunque sia la sua decisione, paga un prezzo basso ed ha effettivamente una scelta; egli è in grado di soddisfare tanto la definizione culturale di adeguatezza, quanto di stare al passo con coloro che trascendono lievemente la norma dell’adattamento[3].

La persona autonoma, pur vivendo come tutti gli altri in un dato ambiente culturale, sfrutta le riserve del suo carattere e della sua posizione per staccarsi dal livello medio degli individui che si sono adattatati allo stesso ambiente. In questo senso non si può propriamente parlare di un individuo eterodiretto autonomo (né di un eterodiretto anomico), bensì soltanto di un individuo autonomo che emerge da un’epoca, o da un gruppo, dominati dall’eterodirezione[4].

Ad accomunare gli individui autonomi è il rifiuto di quella categorizzazione sociale per la quale, in seno a una comunità, gli individui sono identificati unicamente attraverso la posizione socio-economica rivestita e il ruolo svolto con la propria professione, ritenendo più opportuno valorizzare inclinazioni ed attitudini personali, nonché tutte quelle attività che verrebbero altrimenti e comunemente svolte unicamente nei ritagli di tempo libero.

Gli autonomi, così, coltivano interessi e passioni a tempo pieno, indipendentemente dal consenso da questi riscosso in seno al gruppo o alla loro diffusione tra i pari, ritagliandosi uno spazio di nicchia all’interno della comunità.

Invece di continuare ad essere lo spazio lasciato libero dall’orario e dall’inclinazione al lavoro, il tempo libero ha la possibilità di diventare la sfera in cui sviluppare il mestiere e l’arte di vivere. L ’ambito ricreativo potrebbe dimostrarsi quella sfera nella quale esiste ancora lo spazio per permettere alle persone che desiderano l’autonomia di liberare il carattere individuale dalle persuasive richieste di quello sociale[5].

Non è inusuale che individui autonomi entrino in contatto con altri individui altrettanto autonomi, incoraggiati dalla condivisione di interessi e passioni e da una simile visione del mondo. Instaurano, così, nuove relazioni tali da amplificare il senso di autonomia fino a costituire un nuovo e differente gruppo di pari, che non ingloba nei meccanismi di omologazione, ma che accoglie le individualità di ciascuno e all’interno del quale smettono di esser percepiti alla stregua di estranei alle dinamiche sociali.

Se dovesse iniziare a trovarsi tra persone che accolgono, apprezzano o per lo meno non puniscono la manifestazione e l’analisi delle parti occulte del Sé, egli potrebbe riuscire ad indirizzarsi verso una maggiore autonomia. Tuttavia per fare ciò è necessario essere psicologicamente e istituzionalmente in grado di trovare la strada che porta verso nuove amicizie, verso un nuovo o rinnovato gruppo di pari[6].

Il nuovo gruppo di pari, così costituito, aiuta il singolo a raggiungere nuova e piena consapevolezza di sé, prendendo coscienza della propria esistenza come autonomo e allontanandosi ulteriormente dalla massa eterodiretta. Tramite l’introspezione si prende atto di come gli atteggiamenti devianti possano divenire punti di forza e non unicamente motivo di emarginazione.


[1] Riesman D., La folla solitaria, il Mulino, Bologna, 2009, p. 330.
[2] Ivi, p. 338.
[3] Ivi, p. 331.
[4] Ivi, p. 338.
[5] Ivi, p. 367.
[6] Ivi, p. 369.

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L’eterodirezione in sociologia

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