Come molti ormai sapranno, i mass media costituiscono la più grande fonte di influenza sociale. Essi, infatti, influenzano il nostro modo di vestire, il nostro modo di pensare, il nostro modo di agire e persino il nostro modo di amare – quante ragazze illuse dal principe azzurro della Disney.
Dai più, questa occulta manipolazione delle menti, è considerata un cancro terminale per lo sviluppo autentico della nostra identità. Eppure, io vorrei portare alla vostra attenzione un esempio virtuoso dell’utilizzo dei media; ovviamente, lungi da me il voler confutare la tesi appena citata, in parte sono d’accordo, ma di questo forse parleremo in un altro topic.
Oggi, invece, vorrei trattare un concetto che, in buona parte, esiste e si alimenta grazie alla diffusione sui media: il “representation matters”.
Che cos’è il representation matters
È un’espressione che nasce in seno alle minoranze etniche ed lgbtqia+, in polemica con la rappresentazione diffusa di personaggi bianchi e cishet (persone cisgender ed etero) all’interno di film e serie tv. Detta così può sembrare una noiosa e fastidiosa banalità, ma vediamo le motivazioni profonde alla base di questo credo.
Ci viene subito in aiuto il motto del representation matters: “if you can see it, you can be it”, ovvero “se puoi vederlo, puoi esserlo”. E se non puoi vederlo? Ecco, è proprio da questo che nasce la necessità di rappresentazione inclusiva, poiché non ritrovare se stessi all’interno dei media fa sentire le persone trasparenti, inadeguate e non desiderate. Se non vedo mai una persona che mi somiglia fare il medico, l’insegnante o l’avvocato, sono portato a credere che le persone come me non possano raggiungere certi traguardi.
Inoltre, la rappresentazione delle minoranze nei mass media facilita enormemente l’integrazione delle stesse all’interno del gruppo maggioritario, che finalmente le (ri)conosce e impara a rispettarle.
Insomma, essere visti migliora la percezione che abbiamo di noi stessi e quella che gli altri hanno di noi, per questo la “rappresentazione conta”.
Rappresentazione mediatica ed eterodirezione
Ora proviamo a virtualizzare il concetto e a collegarlo al discorso sull’eterodirezione: quanto impatto può avere, per una persona “disadattata” – che non riesce a integrarsi appieno nei meccanismi della società – vedere le proprie difficoltà rappresentate sullo schermo? Maggiormente se poi queste difficoltà vengono gestite e affrontate dal protagonista? Direi decisamente un impatto positivo; finalmente quella “disadattata” potrà sentirsi compresa e meno sola.
E allora l’uomo insoddisfatto della sua vita potrà ricevere la speranza di una possibilità di cambiamento.
La madre di famiglia frustrata saprà che una vita alternativa alla sua “desperate housewife” è possibile.
Il teenager gay potrà masturbarsi su una foto di Matt Bomer senza sentirsi sbagliato e inadeguato.
In conclusione, i mass media ci incasinano enormemente il cervello e l’esistenza, ma in alcuni casi possono anche essere la spinta ad accettare noi stessi, ad abbracciare il nostro vero io o, semplicemente, a prendere in mano la nostra vita. Il percorso poi sarà lungo, ma il primo passo è sempre quello più difficile.
N.B. la parola “disadattato” non è da intendersi con l’accezione negativa del termine, bensì come semplice persona che non è adattata al 100% alla vita sociale e organizzativa di una data società.
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